lunedì 12 settembre 2011

iL FIGLIO DEL DILUVIO- Ritorno alla poesia di Enzo Giudice




galleriaRoma
piazza San Giuseppe 1/2/3
Siracusa





Giovedì 15 settembre alle ore 18,30 Salvo Sequenzia presenterà il libro del poeta Enzo Giudice.


IL FIGLIO DEL DILUVIO
Ritorno alla poesia di Enzo Giudice


Ritornare alla poesia di Enzo Giudice. Ad Ortigia, dove il poeta floridiano prematuramente scomparso quattordici anni fa visse e compose i suoi versi più belli ed amari, vagando tra i vicoli della Giudecca «accattone di sogni e di parole».
Un ritorno che propizia una lettura nuova dell’opera del Nostro, la cui indagine critica rimane sempre aperta per l’innumerevole quantità di inediti che il poeta ha lasciato e che, periodicamente, affiorano, portati alla luce dalle inesplicabili correnti della vita.
Il poeta Enzo Giudice, fu uomo fedele ai suoi e agli amici, buon lettore, curioso di esperienze, gran viaggiatore inquieto e disperato, raffinato animatore culturale in quella cerchia di intellettuali siracusani che si radunava, negli anni post-bellici, nella “Bottega Margutta” di Castorio Di Tommasi attorno a Piero Fillioley, a Dino Cartia, a Mario Zammararo, ai fratelli Formosa.
L’apprendistato letterario di Enzo Giudice si consuma a metà tra gli anni Sessanta e Settanta in interventi giornalistici di costume e di cronaca, in recensioni e appunti culturali sui rotocalchi aretusei l’Eco di Sicilia, La Domenica, Edizioni Pentapoli.
Si attestano ai primi anni Settanta i viaggi di Enzo Giudice a Milano e a Roma, dove frequenta l’atelier del pittore Giorgio Orefice e la casa di Mario Zammarano, partecipando con curiosità e intelligenza all’avventura culturale delle “romane” Edizioni Cartia. Intanto conosce e frequenta Leonida Repaci, al quale fa leggere i suoi primi esperimenti poetici, che confluiranno nella silloge Il figlio del diluvio, pubblicata nel 1974 dall’editore Cartia e che risulterà finalista al Premio Viareggio, nella sezione dedicata all’opera prima. Leonida Repaci, «estimatore dei suoi versi» , lo introdurrà negli ambienti letterari della capitale dove il poeta viene subito apprezzato per la sua sensibilità e il suo carattere mite e malinconico.
Con Il figlio del diluvio, prefato da Mario Zammarano, la poesia di Enzo Giudice svela subito e per intero la sua appartenenza a quel «sesto continente del pianeta piccolo e clandestino» che è la Sicilia, a quella Sicilia che è insieme terra di miti e luogo di contraddizioni profonde, ove le urgenze esistenziali e le ansie speculative si compongono, variamente ibridate o bruciate, entro immagini reali o astratte.
La scrittura che emerge da simile entroterra è una scrittura che privilegia le dicotomie e le costanti polarità, cui non si sottrae il nostro autore, nei cui versi si fissano attaccamento alla vita e senso di morte, ansia conoscitiva e tentativi di fughe nel passato, gusto della natura e memoria di ombre.
Con gli scrittori siciliani del primo e del secondo Novecento, Giudice condivide una profonda spinta contestativa alla propria realtà che, se in alcuni si è espressa in un reale andare via - nella fuga verso il nord - nel nostro si consuma tra tentativi “reali” di fuga, viaggi disordinati in Italia e all’estero, e in immaginari piani di fuga nei quali dislocare una personale ed utopica ricerca di “altro”. Ma alla spinta centrifuga e al desiderio di sconfinamento dal reale si oppone una tendenza centripeta in cui si esercita e si manifesta il controllo del logos sugli impulsi dell’anima.
Di tale rapporto ci testimonia il Dies irae, composto intorno al 1975.
La scrittura poetica del Dies irae alterna reale e surreale, interiorità ed esteriorità, buio e luce, storia e mito, epos classico ed epos cristiano.
La «primitiva purezza del fiume», le «stanze ammobiliate», l’«ideale Milano», sono luoghi in cui cifrare l’inquietudine del poeta e il suo desiderio di sondare l’oltre metafisico. Allegoria, inoltre, del nomadismo interiore e di un inconscio desiderio di soste, ma anche di una impossibilità o di una incapacità di consistere nel proprio tempo storico se non per antitesi, per via negativa, dichiarando la propria assenza, proiettandosi verso un non-luogo in cui riverberare il rifiuto, anche segreto, di una realtà inadeguata: «E’ il gusto amaro/ di chi è posto ai confini dell’esistere/ di chi si è fatto biancore che fugge/verso terre che ignorano il cemento...».
Il «gusto amaro dell’esistere» cui allude il poeta ha un riscontro quasi letterale in quel «gusto amaro della vita» su cui disserta il protagonista dell’Uomo dal Fiore in bocca di Luigi Pirandello, piece teatrale che si sviluppa dalla elaborazione della novella La morte addosso. Il Dies irae è l’ultimo approdo dell’«uomo dal fiore in bocca», l’uomo segnato dalla ineluttabilità del proprio destino ma, insieme, così attaccato alla vita da non rassegnarsi: «Lasciaci spendere i nostri trenta denari/nel canto sterile di chi muore/di sete davanti a zampilli di veleno/lasciaci scavare una galleria/ senza sbocchi come un pezzo di vetro/in cui si riflette la notte»: così si legge in questo passaggio del Dies irae, dove la costruzione del dettato poetico, fortemente retoricizzata dalla frequenza degli ossimori, delle antitesi e della similitudine finale, si fa presagio, epifania di ciò che ineluttabilmente “deve accadere”.
In tal senso, la poesia del Dies irae si discosta definitivamente dai toni ermetici del Figlio del diluvio, accogliendo e realizzando la proposta montaliana ad un discorso che «passi il varco», sovvertendo i confini istituiti del reale, verso un luogo probabile ma indefinito in cui si saldano memoria del passato e angoscia per un presente vissuto nella sofferenza e nella disillusione. Denso, contratto, sostenuto, fluido e struggente è il verso del Dies irae, in cui il discorso poetico opera la mimesi di quelle «Labbra [che] si schiudono come valve/per inghiottire epigrammi...», in cui le «parole diventano suoni rarefatti/di cornamuse ironiche...» che prendono il poeta fin dall’inizio del poemetto e lo inducono a consegnarsi all’inganno, alle seduzioni del suo faticoso e tragico errare «verso terre che ignorano il cemento».
L’orizzonte esterno, da cui muove l’immaginario del poeta, è quello reale dei luoghi colti nella loro quotidiana presenza: il fiume inquinato dal catrame e dalle discariche. Ma esso, trafitto dallo sguardo allegorico del poeta, sembra dilatarsi al punto da dischiudere un orizzonte “altro”, sino a divenire rappresentazione di un inquinamento “morale”, metafisico, segno tangibile della presenza costante del Male nella storia dell’umanità e, in particolare, nell’epoca in cui vive il poeta. Male morale che ha sconvolto orribilmente la «primitiva purezza del fiume», immagine quasi leopardiana, con la quale il poeta vuole certo alludere al tempo felice dell’infanzia, a quella “primavera dei popoli” cantata da Leopardi in cui l’uomo viveva in perfetta armonia con la natura.
La positività dell’elemento equoreo che si delinea nell’incipit del Dies irae, rinvia, da un lato, a una dimensione mitopoietica ancestrale - in cui l’acqua viene vista come portatrice di vita e di purificazione - e dall’altro recupera un modulo caro alla poesia araba, quello della “poesia idrologica” - il canto dei fiumi e delle sorgenti della Sicilia - topos che si associa, nell’opera di Hibn Hamdis e di Al Trabanishi, all’elogio della Sicilia in quanto “Giardino di Hallah”, paradiso in terra, luogo di delizie e di primigenia purezza. Tale topos agisce anche nella poesia di Quasimodo, seppure filtrato attraverso il recupero di tematiche legate alla grecità - si pensi alle poesie “fluviali” dedicate all’Anapo, al Simeto e ad altri celebri fiumi e sorgenti della Sicilia - sino a depositarsi nell’immagine dell’isola in quanto “paradiso perduto”, luogo di purezza contaminata cui Quasimodo guarda con nostalgia estetizzante e Giudice, nell’incipit del Dies irae, riprende in modo assai originale e con toni di disperata rassegnazione.
In effetti, l’universo poetico di Giudice viene dopo una catastrofe - egli «figlio del diluvio» - ormai nemmeno più storica, perché proiettata in un passato mitico, indifferenziato, atemporale. Dalle soglie di questo spazio-tempo indefinito, rievocato ed attualizzato dalla memoria dei drammi familiari, emerge una epifania del negativo, avvertito come oscura memoria maligna, come fantasma di un destino sinistro: «Non per libera scelta io venni/ alla deserta isola di Pathmos/ma perché da te chiamato:/una calamita’ mi costringe sempre/a ritornare con passo piu’ pesante».
Misticismo, esoterismo e surrealismo alimentano dunque la poesia del Dies irae, che ha i suoi referenti letterari - più o meno esplicitati - nelle Illuminations di Rimbaud, nella visionaria peregrinazione degli Ultimi cori per la Terra promessa di Ungaretti, nella posia di Raphael Alberti, nei Canti orfici di Campana e nei Cantos di Pound. E, ancora, il verso del Dies irae conosce lo sbigottimento bontempelliano, la disillusione amara di Landolfi, l’ardua visionarietà surreale di Savinio.
Ma la corrente delle apparizioni tende a trasferire, a dissolvere il dato empirico in una visione assoluta fatta di evocazioni, di storie iniziatiche, di prodigi. La condizione magica dell’essere, il deflagrante morire del tempo, rifiutano ogni tipo di analisi; e perdura la sofferenza, il dolore dell’ardua via dell’esistere, da cui scocca il trionfo triste della poesia.

Salvo Sequenzia

Organizzazione e Direzione: Corrado Brancato

Addetto Stampa: Amedeo Nicotra

Ingresso Libero

Info:
0931/746931
0931/66960 (orario apertura Galleria)
cell.338/3646560

corradobrancato@hotmail.com
www.galleriaroma.it




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